Messa in scena del Teatro del Carretto di Lucca.

Amleto è solo. Solo in scena e solo nella vita. Gioca su una piccola scacchiera con se stesso e i personaggi del dramma. Che non sono nè marionette nè burattini, non c’è padron mangiafoco che li muove, e solo ipotizzare che Amleto sia un piccolo grande fratello agitatore di sè stesso è uno sbaglio. Non che egli sia un messaggero o un incaricato del fato. No, egli muove quei pupazzi solo come un umile servo di scena nella semplicità del racconto. Non può farne a meno, non può decidere chi saranno i sommersi e chi i salvati. Ma lo fa con una spontaneità leggera e soffocante nel momento del gesto o della parola. Proprio da questo atto terreno e sublime allo stesso tempo, da questa spontaneità divina, nasce una forza e una restituzione drammatica del testo originale che da subito affascina e conquista. Il patto narrativo è chiaro: signori spettatori, questi siamo noi, ma forse anche voi tutti. E l’applauso alla rilettura, riscrittura e regia di Maria Grazia Cipriani è meritatissimo. Perché suo è il merito di ridarci la consapevolezza di quanto possa essere semplice una storia così articolata come quella dell’Amleto di  William Shakespeare.

“Abito una allucinazione elaboratamente arredata”, fa dire al suo principe ipotetico Giorgio Manganelli ne “Agli Dèi Ulteriori”. E non stupisce se, qualche pagina dopo, il carteggio tra un ipotetico e strampalato Amleto e la Principessa di Clèves riporta alle orecchie “Le città invisibili” di quel Calvino che non a caso di Manganelli curò tante presentazioni. In questo contesto è perfetta la scenografia essenziale di Graziano Gregori, con quattro americane di luci messe a ponte (curate magistralmente da Angelo Linzalata) che evidenziano una scena apparentemente scarna ma carica di una leggerezza, appunto, calviniana: quindici trapuntine di stoffa appese verticalmente tra le quali appaiono e scompaiono gli attori. Pareti di un paio di metri che ricordano il muro della reggia (o più semplicemente di una stanza), e ammiccano alla cella di isolamento di un ospedale psichiatrico; ma questi muri stavolta sono macchiati di rosso e si tratta, senza possibilità di sbagliare, di un rosso sangue che fa da monito e presagio alla storia così come tutti la conosciamo. A questo punto della narrazione ancora non è accaduto nulla, eppure la platea è pronta a qualunque tipo di apparizione. Ora, soltanto ora, scomparso completamente quell’Orazio la cui unica colpa è cercare di avere la certezza assoluta su ciò che ha visto, riappare il multiforme fantasma del re morto, assassinato, usurpato e tradito poi nell’incesto. Ma la certezza assoluta è negata alla natura stessa dell’uomo, e questa ricerca porta Amleto a confondersi ancor di più. La sicurezza è data solo dalla certezza dei gesti e delle azioni in scena; teatro fisico, ma non solo, con la musica che, perfetta, ammicca continuamente al cinema. La marcia tratta dal “Funeral Music for Queen Mary” è quella scritta da Henry Purcell, riadattata ed eseguita al sintetizzatore da Wendy Carlos per Clockwork Orange di Stanley Kubrick. La platea è quasi congelata.

Ma tutto lo spettacolo è costellato di deliziose citazioni, alcune molto evidenti. Gertrude è la regina bianca della Alice, ma con qualcosa in più del personaggio astratto e diafano interpretato da Anne Hathaway per Tim Burton: la regina di Danimarca c’è, la sua presenza dilaga e dileggia, è orgiastica e provocatrice, vulnerabile e schietta, ingenua e audace quando vuole. Ma se l’Amleto come lo abbiam visto noi è figlio di Manganelli, Gertrude è partorita dalla genialità di John Updike e a passi saltellanti e provocatori è scappata proprio da “Una storia in Danimarca”. L’Attrice Elsa Bossi è un altissimo esempio di spiccata attitudine al teatro alla cui scuola molte pseudoattrici italiane dovrebbero, se non ambire, quantomeno mirare. Elsa Bossi è Gertrude ma anche Ofelia, annegata da due secchiate di petali e boccioli in fiore in quella che è tra le più immediate scene del dramma e che regala autentici brividi alla platea nella scena immediatamente precedente, quella della follia palese e metateatrale. Lo scarto tra i due personaggi è di quelli che lasciano il segno. Applausi.

Ofelia e Gertrude… la confusione di Amleto tra la voglia di vendicare il tradimento e di salvare comunque una parte di sè stesso, se non quella che lo ha generato quella che potenzialmente partorirà altre marionette del destino. Ma ci sono più cose in cielo e sulla terra di quante può sognarne la tua filosofia, avrebbe volentieri detto Amleto ad Orazio, se ci fosse stato il tempo per sognare e giocare. “Ma l’amore è carne, è un fiore che innaffiamo col sangue”, dice Marina Cvetaeva; ed eccole, finalmente, le autentiche marionette, nell’alleggerimento comico dei becchini-scheletri, scevro da qualunque dialogo, trasformato in una danza macabra e grottesca al suono della “Marcia funebre per una marionetta”, di Charles Gounod, tema musicale notissimo, scelto da Alfred Hitchcock per la sua più famosa serie tv.

Amleto, il pur bravissimo Alex Sassatelli, paradossalmente è quello che meno convince in scena, con qualche frase troppo affettata che è però forse colpa della troppa aderenza alla celebrità di alcuni monologhi. Con una cornice così forte la sua semplicità narrativa ne risulta appena offuscata. Bravissimi tutti gli attori nei rispettivi personaggi: Rosencrantz e Guildenstern sono il doppio comico che ha fatto la storia, Claudio è un patetico patrigno a tratti davvero disgustoso, Polonio l’insignificante maschera di un potere vuoto e superficiale.

Una scelta coraggiosa e coerente quella della Cipriani, che contraddistingue l’inconfondibile stile del Teatro del Carretto, una conferma nel panorama teatrale europeo.

Avremmo gradito due momenti di ancor maggiore coraggio, ma questo ruolo resta del regista e non del critico. Ci permettiamo di osare: utilizzare di più il ricorso dei suoni “a vista”, lasciando ai suoni di Hubert  Westkemper di evocare ma a quelli prodotti in scena di evocare. Ci riferiamo al duello finale, ad esempio, riportando una famosa scena tratta dal film esordio di Tom Stoppard del 1990, “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”: nella tragicommedia i comici dell’arte duellano con spade invisibili e un attore sbatte due pezzi di ferro per riprodurre il tocco delle lame.

E ancora il nudo e crudo del cadavere di Ofelia, accennato sullo sfondo: o farlo diventare davvero un obitorio oppure esporlo al macabro e mesto trionfo del proscenio.

Ma forse, per quella parte di pubblico sassarese che ha storto il naso di fronte al nudo che giaceva in penombra sul fondale, è già tanto. Tutto il resto… è silenzio.

 

Luca Losito

 

Foto: Filippo Brancoli Pantera (da teatrodelcarretto.it)

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