Ma un faretto bagna l’arlecchino…

Sarà che da sempre amo Trieste e le sue donne, carattere italiano e tratti somatici slavi, zigomi sporgenti e grande capacità di linguaggio. Sarà che per me il Nord Italia va più verso Est che verso gli ingrati cugini francesi. Sarà che ho in famiglia gli eredi dei profughi della Giulia e amicizie sparse in tutta quella zona. Dunque confesso: amo Svevo e amo Trieste. Ho amato la città come porto ideale dell’Austria e sbocco dell’Europa sull’Adriatico quando ancora non avevo compiuto vent’anni, qui si respira Jugoslavia così come Ungheria. Ritenendomi allievo immeritato di Giorgio Strehler ne ho amato le poetiche filtrate da Umberto Saba, ho un gilet di Missoni, adoro il caffè Illy e Margherita Granbassi, mia madre porta il nome del patrono di Trieste e troppi sarebbero ancora da elencare per far capire quanto chi scrive sia legato a questa città. Non a caso è stata eletta alcune volte come migliore città d’Italia per la qualità della vita. Ora, chiedendo contestualmente scusa al lettore per la divagazione personale la ritengo necessaria per ricollegarla al dolore fisico provato quando appena adolescente confessai in classe che mi era semplicemente piaciuto molto un romanzo dal titolo LA COSCIENZA DI ZENO. Mal me ne incolse, neanche avessi detto che condividevo le ricerche più avanzate ed estreme di Freud, così come anni dopo accadde con Hegel, Nietzsche, Wagner… facile fare appunto di tutta l’erba… un fascio. Sarà che forse già allora intuivo che vivere poteva essere una specie di malattia inguaribile.

I fatti: la coscienza di Zeno, pubblicato nel 1923 è forse il romanzo più rappresentativo di Italo Svevo. Nel 1964 Tullio Kezich, triestino entrato di diritto nella storia del teatro a cavallo tra i millenni, ne ha scritto un riadattamento in forma teatrale.

Qui a Sassari è andato in scena presumibilmente lo stesso testo, senza alcuna sbavatura, senza un intoppo, un’incertezza, una stonatura, dal primo all’ultimo degli attori in scena. E troppo facile sarebbe perdersi in un paragone tra la prima edizione, quella dell’immortale meraviglioso Alberto Lionello diretto dal Maestro Luigi Squarzina, o ancora di Giulio Bosetti per la regia di Egisto Marcucci a fine anni ‘80, e ancora il più televisivo Massimo Dapporto una decina di anni fa diretto da Piero Maccarinelli. In questi nomi c’è la metà abbondante del teatro in Italia.

Il protagonista è lui, appunto, Zeno Cosini, il quale semplicemente (ma cosa c’è di così poco semplice) racconta la sua vita con distacco, ironia e disincanto. Se Shakespeare dice che la vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito e di furore e senza significato alcuno, se Calderòn chiama l’umanità “el gran teatro del mundo” l’esistenza di Zeno è tutta tragicomicamente nella sua coscienza, nelle sue finte malattie, nell’essere ben inserito dove l’essere normali e naturali è il primo degli istinti negati dell’uomo moderno. Ma più Zeno se ne rende conto, più è autoconsapevole della sua autodiagnosi critica, più cresce il pensiero che questa crisi non riguardi solo lui ma l’umanità intera. Così come Amleto, che più la certezza che ad uccidere il padre è stato lo zio Claudio lo spinge verso la vendetta, più egli sembra recedere, così Zeno, dove la debolezza della sua volontà è tutta in quell’ultima sigaretta che non sarà mai l’ultima. Così come nella storia non sarà Zeno l’unico a soffrire, l’unico a vivere, l’unico ad abitare un’esistenza fatta di interpretazioni della realtà, opportunità affrontate sapendo che potrebbero già esserci state negate. La lotta è persa, ancor prima di cominciare; allora perché lottare? Meglio autoconvincersi di essere perfettamente sani. Così da esserlo davvero e poter rifiutare ogni cura, prima di tutte la psicanalisi.

In scena si racconta una Trieste (ma siamo sicuri che la vicenda non potrebbe svolgersi praticamente ovunque? Forse per una volta DAVVERO no), altoborghese, figlia dei fausti austriaci eppure ancora ferma su se stessa, dove le convenzioni sopravvivono più di qualunque rischio sul futuro.

Non tante altre cose da dire, quando uno spettacolo è così perfettamente funzionale al testo e funzionante in scena c’è ben poco da criticare. Il pubblico nota forse un faretto che per meno di un secondo “bagna” l’arlecchino, un siparietto che non si chiude bene, ma niente che non va nella recitazione.

Un’unica critica, percettibile, sul finale. L’ultimo monologo di Zeno, non si sa se per scelta registica imposta – o forse proprio perché Maurizio Scaparro ha lasciato che un attore completo come Pambieri ci mettesse del suo – vede il protagonista applicare una struttura recitativa a frasi che, invertendo quella struttura, sarebbero state pronunciate in maniera altrettanto efficace. Perché 1, 2, 3, 4 e 5 e non 1, 3, 4, 2, 5? O anche 2, 5, 4, 1, 3…

Una struttura matematica che Pambieri fa sua, catturando il pubblico sino all’ultima perfetta battuta del copione.

Ma poiché proprio di matematica si tratta c’è ancora troppo poco spazio per le opinioni, seppur tra le poche interessanti rimaste in giro come quelle del sottoscritto.

Signore e Signori, buonasera: ecco a voi il teatro italiano.

 

Luca Losito

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