Santamaria bestemmia Santa Maria

La prima domanda che lo spettatore medio si pone a sipario chiuso è: perché? Ma non è un’interrogativa poco positiva. Solo un tentativo di capire. Il perché si riflette poi sulle scelte, quelle azzeccate e quelle invece, a nostro personale, soggettivo e forse errato avviso, sbagliate. Perché mettere in scena un testo come questo?

Risponde il regista, nelle note di sua competenza, quelle di regia, appunto: “La necessità e la scelta di rappresentare testi contemporanei che non descrivono una realtà territoriale, ma una indefinita società e indifferenza, uno stato d’infelicità quasi compulsivo che richiama all’oggi, alla concretezza spietata della vita”.

Parole oneste, ma incomprensibili, o quantomeno vaghe. Forse perché siamo ancora in grado di distinguere tra necessità e scelta. E, seppur rispettando la scelta, non riusciamo a coglierne la necessità.

“The Lonesome West” è uno spettacolo con più pregi che difetti. Ma alcuni di questi ultimi sono evidenti. Una certa gratuità nel linguaggio funziona, ma se poi per troppo tempo ci si dimentica di quel registro spiazzante e grottesco significa che non è stato portato a segno. Voci contro affermano che solo la parola “cazzo” sia stata detta oltre ottocento volte. A noi sono parse meno, ma è certo che in troppi hanno storto il naso sin dalla prima. Anche in questo caso, (che pare ormai non essere un’esclusiva solo sassarese), quella di tante, troppe persone che sono andate via dal teatro prima della seconda parte. Alcuni, poi – si è letto sui profili personali di facebook – si sono lamentati della scarsa qualità dello spettacolo. Vergogna. Punto.

A volte ritengo che per certi teatri e certi spettacoli (ma forse dovrei dire per certi spettatori) la pausa tra il primo e il secondo atto sia solo una scusa utile. Chi ha la dissenteria ha tempo e gabinetto, chi è alcolista ha pausa e bicchiere, chi è assonnato ha scusa e fuga. E gli altri? Ma poi non criticate, dico! Fate finta, mentite, dissimulate… perché Sassari è tentacolare ma piccola: vi hanno visto scappare! Ecco perché, mentre rispettiamo Pennac quando tra i diritti del lettore inserisce quello di interrompere la lettura di un libro se non piace, non ammettiamo la critica a uno spettacolo a seguito di abbandono. Così vincono gli attori; per abbandono, appunto.

Ma passiamo all’opera: l’autore è Martin McDonagh, classe 1970, già premiato per questo ed altri testi, in patria e altrove. Il suo unico difetto è quello di ammiccare a Sarah Kane senza avere il coraggio di saltare nel vuoto. L’autore guarda con interesse al teatro estremo ma se ne tira fuori. Resta dentro un occidente solitario che, seppur desolante e amaro, è un rifugio nel quale raccontare storielle di famiglia, conflitti tra fratelli e preti impotenti. Forse osare attualizzarla alla nostra realtà, a partire dalla traduzione di Luca Scarlini, sarebbe stata una scelta più adatta.

Oppure è chi scrive che sta sbagliando tutto, perché non conosciamo le lande sperdute, le solitudini del villaggio e le noie paesane delle quali la vicenda parla. Forse in lingua originale rendeva di più. E’ uno dei motivi per cui un film come “Local Hero” è diventato un cult solo per la colonna sonora di Mark Knopfler più che per le splendide atmosfere e la fotografia evocativa e brillante.

L’intreccio della trama è originale e magnetico, uno dei pregi: Coleman e Valene sono due fratelli che vivono nella stessa casa tra continui litigi. Coleman è un parassita che vuol solo scroccare whisky e pasti, mentre Valene è appassionato di statuine della madonna e lesina cibo al fratello. Padre Welch, il parroco, invoca la pace dopo la morte del padre dei due e il suicidio di un altro paesano. Ma sarà lui stesso la prossima vittima degli eventi; depresso perché fallimentare negli intenti della sua missione pastorale, lascia una lettera ai due fratelli e si suicida annegandosi. Il tutto avviene a seguito di un dialogo tra lui e una ragazzina in riva al fiume; per lui è una fuga, per lei che vuole fuggire l’inizio di nuovi dolori. La scena è velatamente sensuale ed erotica ma anche qui l’autore rifiuta di portarla a segno. Bastava un bacio. Ma niente. Morto il prete ai due fratelli terribili resta una lettera, nella quale il suicidio viene presentato come un sacrificio per la salvezza delle anime che si sono date la morte volontariamente e per quelle di chi resta. Valene e Coleman al principio scoprono il perdono cristiano come valore utile ma poi tutto precipita nuovamente, preludio di nuove disgrazie e sangue.

Qualche nota sugli attori: Claudio Santamaria è più divertito che divertente, e il suo condire di rutti, assolutamente autentici, la narrazione, dimostra che ha piacere a calarsi nel personaggio. Lancia patatine, minaccia, ulula. Non tantissime altre cose in più, però.

Filippo Nigro somiglia troppo ad un incrocio ben riuscito tra Aldo Baglio e Giovanni Cacioppo, che già si somiglian tra loro e ne soffrono; ora hanno il terzo incomodo col quale confrontarsi. Chi raccoglie l’idea di una regia per questi tre attori insieme sul palco? Ma il suo Valene è riuscito e sottomesso quanto basta, doppio contraltare del cinico Coleman.

Azzurra Antonacci a volte è presente solo con la voce. Il corpo recita e suggerisce dell’altro, rispetto alle intenzioni. Ma sono solo vaghi momenti, poi tutto torna. La sua è probabilmente la parte più difficile da rendere in scena, ma l’attrice riesce con efficacia a muoversi agilmente  tra la spensieratezza di una ragazzina che deve andare avanti e non si fa problemi a vendere whisky di contrabbando e quella di chi vorrebbe vivere davvero la sua vita, andare oltre, verso la grande città che possa accoglierla e farle dimenticare il passato.

A Massimo De Santis, il parroco Welch, manca l’unità del personaggio. I suoi tre registri non si mescolano mai, non si incontrano, facendo pensare più ad un prete schizofrenico condito da depressioni bipolari alternate e alternative che ad un vero e proprio cambio di stile. Ora è depresso, ora è contento di bere in compagnia, e poi ancora santissimo in odore di santità. Ma lo sa, di certo.

L’autore, McDonagh, ammicca a Sarah Kane ma non va a segno, abbiamo detto. Guarda al teatro estremo ma se ne tira fuori. Per carità, c’è un patricidio, due suicidi, violenza, furti, minacce, bestemmie… si scomodano vari Beati e la stessa Santa Maria Vergine viene paragonata a donne più comuni e operose… ma non basta. Come direzione possibile potremmo azzardare, citando oltre la Kane e rimandendo in casa, Alessandro Occhipinti. Ma ci fermiamo qui, tra gli applausi per uno spettacolo senza dubbio riuscito, una regia essenziale ma poco coraggiosa e un testo che sembra essere solo la prima puntata di una serie interessante e avvincente, non la più bella però.

Applausi invece, questa volta meritatissimi, alla direzione artistica della stagione teatrale. Far circuitare a Sassari un testo come OCCIDENTE SOLITARIO è un atto di coraggio e di educazione al teatro. Abituare, osando, gli spettatori a registri grotteschi e spiazzanti, è una scelta vincente, in attesa (anche) di un teatro estremo che racconti quanto non solo amara ma gratuitamente violenta e dura possa essere la vita. Anche a teatro.

Sulla messa in scena del regista Juan Diego Puerta Lopez invece, a sipario chiuso, aleggia ancora la stessa domanda. Perché?

 

Luca Losito

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