Volenti o nolenti, nei libri di storia il ventennio alle nostre spalle sarà quello di Berlusconi. Cosa lascerà? Più populismo per tutti, a destra, a sinistra e fuori dai partiti. Il Cavaliere non si tirerà da parte. Ma non per questo bisogna rinunciare a provare, a dar vita a un moderno partito liberale che si batta per la concorrenza e uno Stato meno ladro.

Oggi, 27 novembre 2013, sembra il giorno giusto per esprimere alcune considerazioni, a distanza di 19 anni e 10 mesi dall’arcinoto messaggio televisivo della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, il 26 gennaio 1994 quando iniziò dicendo “l’Italia, il Paese che amo”. Alcune considerazioni su un tema circoscritto: perché, a mio giudizio, un sincero liberale, un liberale particolare cioè hayekiano e non crociano, einaudiano e non scalfariano, debba – da anni, parecchi anni, ma sicuramente da oggi anche per i più pervicaci tra i suoi elettori – non considerare più il Cavaliere come un’opzione possibile.

Non parleremo qui delle vicende giudiziarie, che oggi andranno per la maggiore nel voto parlamentare sulla decadenza di Berlusconi da senatore, l’esito che segue l’uscita della rinata Forza Italia dalla maggioranza di larghe intese, e che ne segna la morte politica. Le decine di procedimenti giudiziari di Berlusconi rappresentano anche per chi scrive un impedimento naturale – da tempo – a una sua credibile permanente attività politica. Ma su questo bisogna sforzarsi di andare al di là della sensibilità personale.

La sconfitta di Berlusconi attraverso i processi e le condanne è stata la via maestra seguita – molto presto in questi vent’anni – dall’antiberlusconismo, che è diventata patologia altrettanto grave della zoppìa continuata del bipolarismo italiano. Dal punto di vista del berlusconismo in sé, della sua capacità di ottenere vastissimi consensi nel tempo, per quanto possa dar fastidio a molti il dirlo, le condanne giudiziarie non rappresentano il vero motivo per il quale dei liberal-liberisti (come chi scrive) considerano chiusa da tempo la parabola politica del Cavaliere. Dove “chiusa” non significa affatto che sia esaurita la sua capacità di prendere molti voti alle urne. Come la sinistra potrebbe molto rapidamente scoprire, se sottovaluta la capacità elettorale della coalizione a cinque che Berlusconi si riserva di guidare anche fuori dal Parlamento, sommando la neonata sua Forza Italia al Ncd di Alfano, alla Lega (che non sembra in grado di voler correre da sola o con altri tracciando una linea di discontinuità), a Fratelli d’Italia e alla rinata Alleanza Nazionale, che ha in pancia risorse e patrimonio per riattirare voti sul vecchio simbolo.

Volenti o nolenti, nei libri di storia il ventennio alle nostre spalle sarà quello di Berlusconi. Così come è esistita un’era della Destra Storica, una Depretis, una Crispi, una Giolitti, una fascista, una degasperiana, una fanfaniana, una dorotea, una andreottiana, una craxiana. Berlusconi ha governato oltre 10 anni dal 1994 a oggi, vincendo una elezione politica ogni due. Ha prodotto, dai suoi quattro governi, una mole immensa di provvedimenti: 1028 leggi, 524 decreti legislativi, 525 decreti legge, 1730 decreti del presidente del Consiglio. La giustificazione ricorrente di Berlusconi, non mi hanno lasciato fare, contrasta con la vastità delle maggioranze parlamentari – senza precedenti nella storia repubblicana – di volta in volta conseguite, quando ha vinto le elezioni. L’enumerazione berlusconiana dei “sabotatori” e “traditori” – negli anni Follini, Casini, Fini, Alfano – discende semmai dall’indifferenza verso le regole del gioco, elettorali e istituzionali, e da una carente capacità di scegliere e giudicare i suoi alleati. Non certo dalla pervicacia di un imperscrutabilmente avverso spirito hegeliano della storia, volto a impedire il successo di governo una volta conseguito quello elettorale.

Sforziamoci di guardare a Berlusconi solo come a un leader politico, a un fenomeno politico dal punto di vista liberale (visto che lui, liberale, si è sempre dichiarato e continua a dichiararsi). E facciamolo da un punto di vista liberale precisamente definito, visto che in Italia da decenni si dichiarano liberali anche molti sostenitori dello statalismo, sol perché magari da giovani andavano in via Veneto, e restano convinti che i veri liberali nella storia repubblicana debbano fermarsi al Gobetti del 1919, quello che nutriva fiducia e speranza nell’occupazione delle fabbriche, e a quello del 1921-22 serenamente e coraggiosamente antifascista. No, non è l’Italia fascista quella che in Berlusconi ci siamo trovati di fronte, né quella costitutivamente anomica – dall’evasione fiscale alla predazione di mercato, dal libertinismo sessuale al considerarsi superiore alla legge – che i finti liberali di sinistra amano naturalmente identificare come atteggiamenti “necessari” del darwinismo individualista liberista, oggi additato da molti come “pensiero dominante” quando MAI esso ha davvero avuto la possibilità di rappresentare un’alternativa concreta nella vita italiana, e che nulla ha a che vedere con la caricatura che in questo Paese intellettuali, media e politica dominante continuano a darne.

No. Se Berlusconi, dall’importante fatto rappresentato dal voto parlamentare sulla sua decadenza, ma in realtà da molto prima, non è più una possibile scelta per dei liberali veri e sinceri, ciò discende da considerazioni politiche che vengono prima della necessaria applicazione di sentenze penali. Ci sono almeno 10 ragioni, per pensarla così. E poiché dobbiamo essere brevi, nell’umiltà di rappresentare il nostro punto di vista, il lettore – sia concorde o discorde – ci scuserà per la necessaria semplificazione nell’enunciarle.

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Chi scrive non votò per Berlusconi nemmeno nel 1994, poiché apparteneva allora, figlio della cultura lamalfiana-repubblicana della Prima Repubblica, a coloro che diedero vita all’effimera esperienza di Alleanza Democratica. Berlusconi all’epoca tuttavia era più liberale di noi, molto di più. Noi restavamo prigionieri di un’idea costruttivista, per la quale all’Italia democristian-mediterranea occorrevano camicie di forza pedagogico-ortopediche, capaci di incanalarne dall’alto le tendenze al familismo amorale, alla corruzione, al clientelismo, all’occupazione da parte dei partiti dello Stato, con risultante dilapidazione della spesa e del debito pubblico. Sbagliavamo. Berlusconi vinse con tre idee davvero, allora, più liberali. La società civile, diceva, era matura e produttiva, molto più di ogni dirigismo politico. Essa sarebbe stata capace di un immediatismo liberale, del tipo incarnato dai libri che allora scriveva Giulio Tremonti, un Tremonti molto diverso dallo statalismo-socialista a cui tornò dopo il 2008. Infine, terzo elemento, non era necessario per questo obiettivo altro che un appello carismatico alla tradizione vivente nella spontaneità sociale italiana. Niente intellettualismi, basta con le sofisticherie di pensatori che finivano per forza attratti dal normativismo giuridico e dal principio del comando amministrativo, o che comunque pensavano alla politique d’abord francesista. Che errore! La Thatcher aveva dietro di sé il Centre for Policy Studies, da noi Berlusconi fin dall’inizio ha usato alcuni prestigiosi intellettuali – Urbani, Martino, Mathieu, Melograni, Colletti, giù giù fino a Pera, Baget Bozzo e naturalmente Giuliano Ferrara – solo per temporanee utilità, in tutto e per tutto come fece un tempo la Lega con Miglio. A loro, man mano che nella delusione dissentivano e si allontanavano, Berlusconi ha sempre opposto un apparente pragmatismo liberale, che in realtà era mito spontaneista dello sposare la supposta innata maturità della società italiana. Come se non fosse necessario comunque scrostarla, con energiche e ben pensate riforme (liberali per davvero), da decenni di corporativismo cementato dal sussidio pubblico nella vita politica e dall’asfitticità del capitalismo di relazione nella vita economica e finanziaria post-globalizzazione. Di qui l’estrema povertà delle politiche di governo berlusconiane, in vent’anni.

2

Berlusconi si è sempre presentato all’origine, se vogliamo nobilitarlo, come un liberale portatore della politica dello scetticismo – per dirla alla Michael Oakeshott – rispetto a ogni politica della fede. E’ una categoria che torna nel miglior libro – a nostro giudizio – che esamini sin qui il ventennio berlusconiano, quello di Giovanni Orsina, “Il berlusconismo nella storia d’Italia.” Senonché l’Italia non è l’Inghilterra, qui le culture dello scetticismo – verso lo Stato, verso il pangiuridicismo, verso il mito dell’uguaglianza intesa come dei mezzi e dei punti di arrivo, non meramente dei punti di partenza – andavano radicate con un’opera paziente e accompagnate con misure di governo ben congegnate, non certo ereditate affidandosi a uno stellone che porta tutt’altro segno, quello delle culture della fede, fede nel partito, fede nel corso obbligato della storia, fede nei soggetti collettivi, fede nella legge che “costruisce” le società, invece di aderirvi per germinazione spontanea. Ciò aiuta a spiegare perché il berlusconismo, dalle Europee del 2004 in avanti, entri in una fase diversa, quella non più fieramente convinta dello scetticismo spontaneo liberatore di energie, ma dell’autodifesa dalle fedi congiunte – giustizialiste, sinistrorse, stataliste e intellettual-collettiviste – rispetto alle quali la difesa del Capo diventa a propria volta una scelta di fede, altro che scetticismo liberale. Una fede perinde ac cadaver di tipo gesuitico verso il Papa, come naturalmente si manifesta nei suoi attuali partigiani, convinti di rivivere l’epopea di Mussolini tradito o di dover evitare a ogni costo quella di Craxi, contumace in Tunisia.

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Berlusconi ha sempre sottopesato la necessità di un limpido impegno per cambiare le regole istituzionali, elettorali e costituzionali, nell’interesse di tutti. La natura della sua prima crisi di governo, con l’abbandono della Lega Nord per effetto dell’avviso di garanzia pubblicato nell’estate 1994 dal Corriere della Sera, lo ha immediatamente spinto a una visione non equilibrata della necessità di affrontare il nodo istituzionale. Da allora, con crescente vigore man mano che le Procure proseguivano nell’accumulare procedimenti a suo carico, la lettura berlusconiana fino a oggi, il giorno del voto sulla decadenza, è stata sempre più radicalmente portata ad opporre forzatura a forzatura. Il tentativo di cambiare la parte ordinamentale della Costituzione, dettato più dalla Lega che dalla convinzione del premier, si infranse nel referendum confermativo del 2006. In materia elettorale, il Porcellum ha interpretato la convergente volontà dei leader (e delle correnti, negli altri partiti) di scegliere una corte di eletti sicuri e obbedienti, impedendo ogni reale e sano bipolarismo. E’ rimasta la lotta a testa bassa contro la magistratura. Tanto a testa bassa, che anche coloro che da sempre vogliono una riforma della giustizia che emendi gli eccessi italiani – numerosi e gravi, se guardiamo a qualunque altro modello occidentale – non hanno potuto, nel tempo, che pensare che finché il problema sono i processi di Berlusconi e l’eredità delle sue leggi ad personam, mai si potrà avere un sistema giudiziario e processuale meno squilibrato dell’attuale.

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Berlusconi, mano mano che dalla metà del primo decennio Duemila i suoi guai giudiziari aumentavano, ha sempre più puntato su una delle caratteristiche più spettacolari e significative della sua innegabile fortissima capacità di consenso: e cioè sul fatto che, nel popolo dei suoi elettori, rinvii a giudizio e condanne non solo non rappresentavano un impedimento al voto e all’agibilità politica (nel “suo” popolo la sempre più siderale distanza tra ciò che Berlusconi prometteva prendendo i voti, e ciò che faceva al governo, ha di fatto un impatto trascurabile), bensì erano una conferma della natura carismaticamente irriducibile di Berlusconi a coloro che vi si opponevano, al “nemico”, cioè alla sinistra. E’ questa, con ogni probabilità, l’eredità più pesante del berlusconismo. Ha contribuito a radicare un odio irriducibile nella politica italiana. Volano ormai insulti quotidiani non solo tra berlusconiani e antiberlusconiani, ma anche all’interno dei partiti che di berlusconiano hanno o pretendono di aver nulla (vedi il confronto per le primarie del Pd). Si alzano le mani, dopo i toni, nelle assemblee elettive da Roma a Torino, come non avveniva minimamente nemmeno nel 1948. I social network ogni giorno ribollono di invettive e ingiurie. Grillo e i suoi voti a carrettate, vellicati dai vaffanculo, ne sono il frutto. Ma per un liberale, antigiacobino per definizione e che dunque non contempla violenza verbale come fisica quali strumenti di lotta politica, questo è un abominio più colpevole e intollerabile di quando a compierlo sono altre culture politiche.

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L’autorappresentazione berlusconiana dei primi anni, quelli della rivoluzione liberale spontanea, non ha solo letto male la realtà italiana in cui operava. Ha finito per spaccarla ancor più radicalmente su assi orizzontali, al di là della condanna eticista suscitata dalle vicende giudiziarie. Ai magistrati si sono aggiunti insegnanti, intellettuali, giornalisti, burocrati e dipendenti pubblici. Tutti coloro che la Dc e il Psi vellicavano e accontentavano, con un’instancabile produzione legislativa e con cospicue dotazioni di finanza pubblica. L’antipolitica, che queste categorie e la loro espressione politico-mediatica hanno identificato nel difetto di fondo di Berlusconi, ha finito per radicare la singolare teoria secondo cui Berlusconi-premier rappresentasse una sorta di manomissione permanente di un luogo comune in realtà coessenziale al consenso della prima Repubblica. Quelle categorie potevano sì votare Pci in vasta misura, prima di Berlusconi, ma non disconoscevano i benefici che gli avversari del Pci dal governo avevano dispensato negli anni. Con Berlusconi, ogni intervento – vedi la riforma Gelmini della scuola – è stato vissuto e rappresentato come un attentato. Si può essere costretti ad affrontare con durezza l’opposizione corporativa a riforme giuste, come accade alla Thatcher coi minatori e a Reagan con i controllori di volo. Ma un liberale taglia del 7% del Pil la spesa pubblica, come sta facendo David Cameron nel Regno Unito, solo se nelle amministrazioni pubbliche riesce poi a radicare un non marginale consenso sulla necessità di alcune scelte energiche. Berlusconi non solo non ci è mai riuscito. Non ci ha mai seriamente neanche provato – ricordate i minatori del Sulcis? – pigramente annoiato del governare, considerato un peso poco esaltante rispetto al prendere i voti con quelle fulminanti trovate in campagna elettorale in cui è campione.

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Berlusconi all’esordio si presentò come radicalmente discontinuo, rispetto alle vecchie èlites partitiche. Ma dal 2001 in avanti ha fatto l’esatto contrario. Il tentativo – impossibile – di fare del movimento carismatico un partito organizzato è vissuto sostanzialmente dell’imbarco, a livello territoriale, di migliaia di quadri ed eletti della vecchia Dc e dei suoi ex alleati. Altro che Hayek, Einaudi, o Lord Acton. De Gasperi a parole, ma di fatto Fanfani e Andreotti, sono diventati i nuovi miti della folta platea di eletti berlusconiani. Con la differenza che morotei, basisti e andreottiani potevano decidere ogni 8 mesi di mutare premier e ogni due-tre anni il segretario del partito, adottando un culto – un po’ ipocrita – del “servire le istituzioni”. Mentre nel movimento berlusconiano il doroteismo di una fascia sempre più vasta di eletti ed elettori non poteva prescindere dal culto bonapartista del Capo, ma ne restava intriso con conseguenze totalmente contraddittorie, tra il livello nazionale e sempre più numerosi potentati locali, sedimentati nel tempo e clientelari vecchio-stampo.

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L’economia. E’ il tema più scontato, per chi scrive. Berlusconi ha praticato nei suoi anni di governo una forte crescita della spesa corrente sul Pil, invece di approfittare del dividendo dell’euro che abbassava dal 12,8% a meno del 5% di Pil annuo gli oneri sul debito pubblico. La delega fiscale con le due aliquote, una di poco superiore al 20 e l’altra di poco superiore al 30%, è risultato un mero manifesto acchiappa-mosche. Di privatizzazioni e liberalizzazioni serie e d’impatto, neanche a parlarne. Dopo il 2005 (con il ripiego del Berlusconi liberale a favore di quello difensivista), dopo il 2008 (con la crisi finanziaria mondiale) e nell’ultimo scorcio del suo quarto governo (con l’esplodere dell’eurocrisi), il dissidio tra un Berlusconi liberale a parole e un Tremonti tornato statalista-socialista non ha che costituito l’epilogo finale obbligato, come premier, di un politico che mai alle parole aveva fatto seguire i fatti, su spesa e tasse. Chi – oggi in Forza Italia – contribuì alla famosa lettera arrivata dalla Bce nel luglio 2011 (che mise la premessa per la caduta di Berlusconi a novembre) è adesso in prima fila a gridare contro la BCE stessa, la Germania e l’euro. Quando ci si riduce a sposare l’Europa per impedire che a Berlusconi succedesse Tremonti, e a cambiar subito dopo bandiera accusando altri di essere servi di tedeschi, nulla del liberalismo di mercato è restato. Tutto è sacrificato alla pura tattica domestica e di partito, senza alcuna lungimiranza rispetto alla gravità di una crisi italiana che pre-esiste ai difetti dell’euro, e che ha bisogno comunque di cure liberali, resti l’euro, oppure no.

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I valori. Berlusconi ha creduto – o mostrato di credere – solo all’inizio che su temi come la cittadinanza, la bioetica, l’immigrazione, l’omosessualità, la “sua” originaria Forza Italia dovesse essere più nettamente liberale degli alleati obbligati, la Lega e An. In pochi anni, le distinzioni sono rapidamente sfumate le posizioni hanno finito per sovrapporsi pressoché integralmente. Parlando alla pancia del Paese, si finisce per confondere il luogo comune sondaggistico con il criterio da seguire e compiacere. Non solo nella richiesta economica e sociale di “più Stato”, richiesta tradizionalmente forte in Italia e divenuta fortissima in questi anni di aspra perdita di prodotto, reddito e patrimonio. Ma anche sul terreno dei “valori”. Il Pdl unitario ha finito per essere un contenitore contraddittorio assai più della vecchia Dc. Quella praticava comunque una scelta netta, nell’ancoraggio a gerarchie e dottrina della Chiesa. Il Pdl ha finito per comprendere insieme laico-socialisti, cattolici ortodossi, e “atei devoti”. E’ ovvio essere tolleranti al massimo, per dei liberali. Ma non significa, a seconda dell’agenda e dell’opportunità politica e dei sondaggi pro tempore, tenersi libere tutte le opzioni. Si finisce per trasformare una bandiera in una pezza a colori.

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Nord e Sud. All’inizio, Berlusconi unì un consenso – di facciata – alle rivendicazioni nordiste delle Lega e un ponte al radicamento meridionale di An. Ha affrontato per lungo tempo in maniera brillante l’equazione elettorale, perché ha continuato ad andare a bene nel Nord e al Sud – nella media, molto meglio dei suoi avversari – innestando questa stessa dialettica all’interno di FI prima, e del Pdl poi. Ma, dal governo, negli anni, non è venuta nessuna reale scelta di discontinuità rispetto ai gap del Mezzogiorno con il Nord, che nella crisi hanno ripreso a crescere drasticamente: il reddito pro capite, ad esempio, con punte di 10-12mila euro rispetto agli oltre 30mila in Lombardia. La responsabilità del devastante Titolo V della Costituzione spetta alla sinistra, ma lasciare il Sud a se stesso – dopo averne incassato alternativamente il voto maggioritario – è stata colpa comune del Cavaliere come della sinistra.

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L’impossibilità per Berlusconi di dar vita a un moderno partito liberal-conservatore in Italia discende da tutti i punti precedenti, e da molti altri che qui risparmiamo per brevità. Il Berlusconi politico di professione insostituibile, a giudizio suo e dei suoi, è un perfetto capovolgimento di ciò che dovrebbe rappresentare un moderno leader liberale, giudicato sui risultati di governo, e mutuabile nel tempo per sostituzione da gruppi dirigenti veri e non cooptati per obbedienza. L’assenza di atti concreti per aprire i mercati, ridimensionare il perimetro pubblico centrale e locale, abbassare le tasse, giustificata con l’insostituibile monismo di colui che si dichiara vittima di alleati e sodali prima che degli avversari e naturalmente della magistratura, significa totale indisponibilità a qualunque ammissione di errore. Politico, non giudiziario.

Epilogo

Non manca oggi solo un moderno partito liberale di massa, o comunque significativo. E’ ancor più difficile costruirlo, stante che molte dei suoi obiettivi resteranno a lungo bersagliati e squalificati come “berlusconiani” dai loro avversari. Più populismo per tutti – a destra, a sinistra e fuori dai partiti – è e sarà la coda del berlusconismo. Un gioco a cui vince facile chi più tiene le mani libere e non si confronta con realtà e i problemi da risolvere, vedi il Movimento 5 stelle. Ma non per questo bisogna rinunciare a provare, a dar vita a un moderno partito liberale che si batta per concorrenza e Stato meno ladro. Anche se Berlusconi non si tirerà da parte, né i suoi avversari da sinistra cesseranno di volerlo e dipingerlo come vero antagonista, pur sapendo che mai più governerà.

Oscar Giannino
(articolo pubblicato su stradeonline.it a dicembre 2013)

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