L’ARTE COME ATTO POLITICO E SOGNANTE
Salvatore Palita ha esposto per soli cinque giorni a Sassari, nello Spazio Bunker, ed è un vero peccato, perché cinque giorni non bastano per così tanto stimoli. Ma forse la sua forza profonda sta proprio nel condensato. Ricordiamo grandi battaglie, non abbiamo dettagli di lunghe guerre.
La sua nuova mostra è un concentrato di visioni e pensieri, un viaggio interiore che si traduce in opere immaginistiche, cariche di tensione emotiva e immediatezza visiva. Colori netti, poche sfumature, perché esprimersi significa scegliere, e in certi casi molto nettamente.
L’artista, da sempre legato a un’idea di arte che coniughi immagine e parola, costruisce un universo espressivo in cui pittura, grafica e testo si fondono in un dialogo aperto e necessario, diretto, intenso.
Palita non è mai stato un artista silenzioso: espone quando ha qualcosa da dire. Ed è proprio in questo che risiede lo spessore del suo lavoro. Ogni sua scelta creativa è anche una scelta di campo: l’arte è, per lui, un terreno di lotta, uno spazio di libertà dove le convenzioni possono essere disinnescate, rilette, sovvertite. È un artista partigiano, nel senso più alto del termine: ha scelto di stare dalla parte dei deboli, degli emarginati, di chi resta indietro. E lo fa con la delicatezza di un sogno e la potenza di una denuncia.
Lo incontriamo dopo un tangibile silenzio espositivo. E ci conferma che questa mostra rappresenta per lui una nuova necessità: tornare a parlare attraverso l’arte. Lo fa prendendo frasi dalla grande letteratura, ma anche creando testi suoi, personali, nati da una riflessione profonda e vagamente inquieta. Ogni opera è infatti un racconto frammentato, una scheggia di brace accesa rubata a un romanzo visivo in continua evoluzione, dove la giustizia sociale non è mai slogan ma tensione reale, vissuta, urgente.
Sin dagli anni Settanta Palita ha seguito un percorso originale, ibrido, influenzato dalla Narrative Art e da suggestioni psicoanalitiche. Ma è la dimensione politica del suo lavoro che oggi più colpisce: la volontà di usare l’arte per prendere posizione, per accendere una coscienza critica. Come ricordava Ernesto Guevara, «non sarà mai utopistico proporre a chi verrà dopo di noi un luogo nel quale sia più degno vivere». Palita sembra credere ancora in questo sogno, e lo restituisce a chi guarda, con onestà e passione. Le sue opere non chiedono solo di essere osservate, ma accolte come gesti di resistenza e di speranza.
L’auspicio è che queste parole e queste immagini non cadano nel vuoto. Che qualcuno le raccolga. Magari proprio chi le sta aspettando da tempo, in silenzio. E che non debba aspettare ancora troppo, perché il messaggio di Palita, oggi, è urgente. In un’epoca che pare aver perso la bussola della cultura, in cui le tensioni sociali si consumano in un’indifferenza diffusa, serve qualcuno che ricostruisca ponti. Che parli alle nuove generazioni, non solo di futuro, ma anche di memoria e di possibilità di riscatto.
Amaramente, forse come un atto di autoassoluzione.
Perché tutto ciò che è stato non può essere dimenticato, né archiviato. Va invece portato con sé, come bandiera. Palita ce lo ricorda con la forza mite e segnante della sua arte: non si può costruire un mondo più giusto se prima non si riconosce il valore di chi ha provato a immaginarlo. E l’immaginazione, se unita all’impegno, può ancora essere un seme. Un seme che, in buone mani, può germogliare. Con nuovi colori da scegliere.
Luca Losito